Dentro le mura di casa

Ventesimo giorno di quarantena

Caro diario,

sto impazzendo. Ormai non lo dico più in senso lato, ormai credo sia davvero così.

Oggi mi sono sorpresa a guardare con aria minacciosa un passante sotto casa. Un rumore simile ad un ringhio vibrava nella mia gola.

Abbiamo finito la crema di nocciole, gli spaghetti fini che mi piacciono e le patatine; e mamma non andrà in bottega prima di tre giorni. Siamo rovinati!

Vige in casa una dittatura autoproclamatasi per la preservazione dei generi di prima necessità, come dentifricio e carta igienica. Sempre mamma. Dice che ho esaurito la mia dose consentita di shampoo. Fino a data da destinarsi mi laverò i capelli con la cenere della stufa. Su You Tube ho scovato un tutorial che mi darà una mano.

I cellulari della famiglia sono raccolti in un enorme piatto di legno in cucina. Siamo a corto di legna quindi, alla peggio, lo butteremo nella stufa; come settimana scorsa lo sgabello di zio Leone. I cellulari li teniamo lì dentro perché siano accessibili a tutti: li usiamo come utensili. Schiaccianoci, apribottiglie, martello. Li usiamo per tutto e funzionano bene. Queste cose in casa non le abbiamo, siamo sempre andati a prestito dai vicini. In cambio gli portavamo gigantesche teglie di lasagne. Da un po’ mi chiedo: noi ci siamo arrangiati con i cellulari, ma loro? Nessuno in quella famiglia sa cucinare.

Questa notte mi sono svegliata fradicia di sudore, per terra vicino al muro. La testa mi scoppiava. Poi mio fratello mi ha mostrato un video: ero io che correvo, correvo, correvo. Finché non ho incontrato la parete con la fronte. Probabilmente stavo sognando di fare jogging al parco. Nel filmato sembro quasi felice. Sorrido.

Ora devo andare, diario. Ho sentito il rumore di un pacchetto. Devo fermare papà prima che finisca anche i salatini.

Dentro le mura di casa, allo stadio primordiale

Ventesimo giorno di quarantena

Caro diario, sto impazzendo. Ormai non lo dico più in senso lato, ormai credo sia davvero così. Oggi mi sono sorpresa a guardare con aria minacciosa un passante sotto casa. Un rumore simile ad un ringhio vibrava nella mia gola. Abbiamo finito la crema di nocciole, gli spaghetti fini che mi piacciono e le patatine; e mamma non andrà in bottega prima di tre giorni. Siamo rovinati!

Vige in casa una dittatura autoproclamatasi per la preservazione dei generi di prima necessità, come dentifricio e carta igienica. Sempre mamma. Dice che ho esaurito la mia dose consentita di shampoo. Fino a data da destinarsi mi laverò i capelli con la cenere della stufa. Su You Tube ho scovato un tutorial molto utile.

I cellulari della famiglia sono raccolti in un enorme piatto di legno in cucina. Siamo a corto di legna quindi, alla peggio, lo butteremo nella stufa; come settimana scorsa lo sgabello di zio Leone. I cellulari li teniamo lì dentro perché siano accessibili a tutti: li usiamo come utensili. Schiaccianoci, apribottiglie, martello. Li usiamo per tutto e funzionano bene. Queste cose in casa non le abbiamo, siamo sempre andati a prestito dai vicini. In cambio gli portavamo gigantesche teglie di lasagne. Da un po’ mi chiedo: noi ci siamo arrangiati con i cellulari, ma loro? Nessuno in quella famiglia se la cava ai fornelli.

Questa notte mi sono svegliata fradicia di sudore, per terra vicino al muro. La testa mi scoppiava. Poi mio fratello mi ha mostrato un video: ero io che correvo, correvo, correvo. Finché non ho sbattuto la fronte sulla parete. Probabilmente stavo sognando di fare jogging al parco. Nel filmato sembro quasi felice. Sorrido.

Ora devo andare, diario. Ho sentito il rumore di un pacchetto. Devo fermare papà prima che finisca anche le scorte di salatini.

Mary

Autunno (rivisitato)

Le foglie della vecchia quercia rannicchiata nell’ombroso angolo del giardino cominciavano a cadere, assecondando il ritmo delle sferzate fredde del nuovo vento. Era ormai giunto l’autunno che, congedato il sole infuocato di Agosto, portava con se il ricordo dei doveri rimasti a sonnecchiare durante i mesi estivi.
L’orologio segnava le sei e trenta minuti di una mattina uggiosa e Flavia, sorseggiando il suo solito caffè bollente alla nocciola, osservava il cielo dalla finestra appannata della cucina, avversa all’idea di tuffarsi nelle gelide raffiche, finché non le saltò in mente il volto di quello che lei ormai chiamava tra se e se il valido motivo. Prese la giacca e uscì in strada, diretta alla stazione.
Il treno, come sempre, non sarebbe partito prima delle sette e quindici. Aveva ancora tempo, quindi andò a sedersi su una di quelle panchine in ferro battuto che rendono la frescura autunnale più penetrante, e posò fra le labbra la prima sigaretta della giornata accendendola con uno scatto dello zippo portafortuna. Nel frattempo i pendolari come lei iniziarono a riversarsi nei pressi delle rotaie, ansiosi di giungere a meta, nervosi e brontoloni. Flavia li osservava in silenzio. Nelle orecchie la calda voce del suo cantante preferito.
Guardò l’orologio e la posizione delle lancette le procurò un rapido brivido alla spina dorsale. Si voltò verso l’enorme porta a vetri dell’entrata: eccolo. In perfetto orario.
Senza rendersene conto iniziò a sussurrare le parole della canzone che le filtrava nelle orecchie, come un pappagallo infreddolito, mentre i suoi occhi non si staccavano dall’uomo che avanzava tra la folla.

“Chi ti difenderà
dal buio della notte,
da questa vita che non dà
quel che promette.
T’innamorerai lo so
certo non di me …”

Ogni giorno, alle sei e cinquanta in punto, lui varcava la soglia della stazione e andava a sedersi in disparte accendendosi una sigaretta, proprio come lei.
Lo aveva notato anni prima, ai tempi ancora delle scuole, e non era stata in grado di levarselo dalla mente. Qualcosa in quel suo aspetto rude, nelle spalle forti, nella barba spesso e volentieri lasciata incolta, nella camicia di flanella gettata sopra dei jeans sporchi di lavoro, la seduceva. O forse la colpa stava nella tonalità grigia dei suoi occhi, profonda e impenetrabile, a renderglielo impossibile da cancellare.
Per anni interi lui su una banchina e lei su un’altra. Due binari paralleli, senza nessuna apparente connessione. Esattamente come le loro età: vent’anni a dividerli.
Flavia non poteva che continuare a fissarlo, così lontano e distratto dalla vita per accorgersi di una ragazza come tante altre che, seduta sul ferro gelido di una panchina, aspetta in silenzio il suo treno.
Il fumo della sigaretta immobile fra l’indice e il medio iniziò annoiato a danzarle sotto gli occhi. Qualcosa di incomprensibile galleggiava fra loro, lo capiva ad ogni sguardo portato dal vento, fra il caotico oblio di arrivi e partenze, in cui lui sembrava fissarla dritto nelle pupille lucenti.
No. pensò lei. Oggi no, non me lo guardo più da lontano. Oggi voglio conoscerlo!

Prese ad osservarsi le dita appena segnate di nicotina, fece un respiro pieno e rumoroso e si alzò, con la nausea che le ballava nello stomaco. Attraversò branchi inquieti di ragazzini con lo zaino in spalla, disinvolti direttori di una qualche banca stretti nelle loro perfette giacche e cravatte, un paio di turisti disorientati e poi trovò lui. Vestito alla stessa maniera, seduto alla stessa panchina con le labbra serrate sulla stessa marca di sigarette. Non la vide, intento a grattar via una macchia di calce dai jeans.
Il cuore di Flavia le si fermò in gola, schiacciato dalla deglutizione frenetica.
Ora o mai più. Sussurrò a se stessa e gli si fece vicino, facendolo appena sobbalzare per la sorpresa.
La vide stringere nella mano sinistra lo zippo decorato ma sprovvista di una sigaretta con cui usarlo. Sorrise. Vuoi? le chiese porgendole il pacchetto. Lei rimase lì, immobile con un’espressione tutt’altro che intelligente, a fissare i bastoncini di tabacco come fossero diamanti di Tiffany.
Volevi una sigaretta? Prendila pure. e si alzò davanti a lei.
Flavia allungò timida la mano e ne afferrò una, respirando lentamente per riprendere il controllo di se. Si, grazie. Alzò lo sguardo e, per la prima volta, riuscì a specchiarsi nei suoi occhi grigi.
Erano anni che anche lui la guardava, entrambi lo sapevano.
Una strana elettricità sgorgava dai loro corpi finalmente vicini: frizzante e densa, come il cuore di certe caramelle ripiene di soda acidula.
Le loro bocche espirarono in sincronia perfetta nuvole calde di fumo. Sergio, piacere. disse lui, sfuggendone gli occhi e fissandosi sul dettaglio del piercing che le decorava il sopracciglio.
Una stretta di mano. Primo contatto, impacciato ma già caldo nel suo fuggente desiderio.
Tornarono a sedersi sulle panchine di ferro battuto. Per la prima volta non più su linee destinate a non incrociarsi mai, ma l’uno di fianco all’altra. Talmente vicini da respirarne l’odore di questo incontro: agrumato come le note al limone della pelle di lei e dal sentore di caffè come l’alito di lui.

Il treno arrivò e portò via con sé i pendolari frettolosi, tranne Sergio e Flavia che rimasero immobili nel loro innocente idillio, dal sorriso nascosto fra lo scintillio dei loro occhi persi senza meta nella folla, con il cuore in subbuglio e le mani sudate.

L’accecante brillare della fascia d’oro bianco impediva a Flavia di distogliere lo sguardo dall’anulare di Sergio. Sapeva bene che si trattava di un uomo sposato, ma quell’anello era per lei una manetta che le stritolava la bocca dello stomaco nella prigionia del senso di colpa.
Di quando in quando l’aveva scorta, in stazione, quella moglie sempre di corsa che con un casto bacio salutava suo marito prima di scomparire oltre l’uscio.
Sono l’altra. pensò nervosamente lei, percependo d’improvviso lo sbaglio colossale che rappresentava quello stare lì, seduto l’uno davanti all’altra, al tavolino di un bar qualsiasi.
«Mi raccomando Flavia, stai con chi vuoi … Ma lascia in pace gli uomini sposati!» questo glielo ripeteva sempre sua madre, fin dall’età dei primi corteggiamenti e ancora glielo ricordava, senza preavviso e senza motivo.
Già … sussurrò lei espirando una boccata di fumo denso che si diramò sopra le loro teste; poi alzò lo sguardo e si convinse di poter fissare nella mente ogni dettaglio del viso di lui, per poi andarsene prima di peccare. Iniziò ad esaminare i capelli scuri in cui sfumature brizzolate iniziavano a lasciare il simbolo del tempo in marcia, arruffati quel tanto che basta per immaginarlo appena sveglio; le sopracciglia perfettamente non curate, di un paio di tonalità più chiare dei capelli; l’unica ruga marcata in mezzo alla fronte che conferiva autorevolezza allo sguardo; per lasciar scivolare poi gli occhi sulle sue labbra sottili e di un rosa decisamente tenue se confrontato alla carnagione conferitagli dal duro lavoro all’aperto.
Si chiese se lui fosse davvero felice con quella donna dai lunghi capelli ricci e, immediatamente, si rispose che non aveva importanza, che nessuna motivazione poteva giustificare la sua intromissione fra due persone che si erano giurate amore. Spinse indietro la sedia e fece per alzarsi quando si accorse del labiale in movimento di Sergio.
Scusa? gli chiese fissandolo sul mento. Com’è il tuo cornetto? La sua voce risuonava impacciata, così Flavia alzò il suo sguardo color dei noccioli e lo posò nel suo, grigio come il cielo che promette pioggia.
E lì lo sentì: ora o mai più. Quella era la loro occasione rubata al tempo. L’unica giornata in cui quel loro tanto sognato noi poteva sopravvivere.

Non rispose subito, si limitò ad accendere l’ennesima sigaretta della mattinata che andava scaldandosi, lasciando che l’attenzione le venisse rapita dal motivo geometrico della tovaglia sdraiata sotto il piattino da caffè.
Lo aveva desiderato così tanto ed ora Sergio era lì, seduto di fronte a lei con stampato un sorriso di cui gli donava l’esclusiva … Avrebbero sbagliato, ma ne sarebbe valsa la pena.
Con il cuore quasi calmo, lentamente alzò il volto e lo guardò. Un sorriso dolce le uscì sulle labbra.
E’ buonissimo! Ti va di assaggiarlo? chiese sporgendosi sopra il tavolino per raggiungere la bocca di lui, rassegnato quanto lei al desiderio bruciante di un contatto. Da labbra a labbra il pezzo d’impasto tiepido passò dall’una all’altro senza tuttavia sfociare in un bacio, nel silenzio dei loro corpi tesi. Si sorrisero finalmente complici ed ogni senso di colpa si dissipò nell’aria frizzante dell’autunno.
Seguirono innumerevoli sigarette, poche chiacchiere, decisamente troppi sguardi e delle risate calde e piene. Entrambi avevano smesso di temere, di frenarsi, di tirarsi indietro.
Un giorno rubato alla realtà, rubato al mondo.
Un anomalo incrocio di due rette parallele. Un assurdo strappo nella linea della vita. gli sussurrò Flavia, mentre lui la stringeva a se.

Quando si alzarono dal tavolo fu spontaneo prendersi per mano avviandosi per la strada ricca di vetrine e odori di bevande e piatti caldi. Camminarono senza rendersene conto per parecchi minuti, trovandosi sorpresi davanti al portone dipinto di blu dell’abitazione di lei. Salirono i quattro gradini in pietra e si fissarono, stringendosi delicatamente come davanti ad un precipizio.
Sergio … sussurrò lei. Aveva il cuore surriscaldato come un motore e le mani stranamente gelate.
Flavia … le fece eco con la sua voce roca, accarezzandole i capelli e avvicinandosi alle sue labbra piene e invitanti. Finalmente concessero alle loro bocche di accarezzarsi nella parvenza d’un bacio che in quel momento si stampò come un’istantanea nel tempo che li circondava.
Gli occhi di lui presero a scintillare di un triste rossore mentre dalle guance di lei cadevano ruscelli salati. L’abbracciò con lo sguardo un’ultima volta, si voltò e scomparve alla sua vista in pochi minuti. A Flavia rimase solamente un dettaglio di Sergio: il sapore del suo respiro, che gli danzava ancora sulle labbra.
Con le lacrime ostinate che le macchiavano la giacca leggera, girò le spalle a quel giorno galeotto ed entrò in casa. Sola.

La voce metallica degli annunci la fece sobbalzare, complice anche la sigaretta che, arrivata ormai al filtro, le bruciava l’indice con insistenza. La lanciò a terra e prese a succhiarsi la pelle scottata, nel tentativo di portarle sollievo. Aveva completamente scordato di averne accesa un’altra e, un po’ confusa, alzò lo sguardo verso l’enorme orologio dalle lancette spesse e nere.

Era una mattina uggiosa di autunno, sulla lingua danzava ancora forte l’aroma del caffè bollente alla nocciola ed erano esattamente le sette e dieci minuti. Guardò la panchina di Sergio e vide che era già vuota. Il freddo in faccia la riportò alla realtà, dissolvendo anche gli ultimi vapori di quel sogno ad occhi aperti che l’aveva rapita pochi minuti prima, quando lo aveva visto varcare la soglia tra la folla e non era stata in grado di opporsi all’immaginare cosa sarebbe potuto essere se …
Ma si trattava solamente di una sciocca fantasia di una ragazza come tante altre, seduta su una fredda panchina in attesa di un treno, e questo Flavia lo sapeva bene.
Le tornò alla mente quel bacio non dato e quel cornetto tiepido di cui riusciva a sentirne l’odore. Questa mia potente immaginazione mi è amica e nemica allo stesso tempo. si disse, con un mezzo sorriso appeso alle labbra.
La voce metallica la richiamò ai comandi: il suo treno era in procinto di partire e lei doveva salire e tornare alla vita che aveva scelto.
Sette e quindici in punto. E ogni mattina alle sei e cinquanta arrivava lui, in perfetto orario.
Lui. Dagli occhi grigi come il cielo londinese e i capelli brizzolati dal tempo.
Flavia lo guardava da così tanto tempo. Da così tanto tempo lo amava, silenziosa.
Così, per tanto altro tempo ancora, lo avrebbe guardato e amato da lontano.

Mary

Scomodiamo i ricordi

“Hey …” lentamente spingo la porta di metallo appena accostata ed entro nella stanzetta in penombra. Me la ritrovo seduta a terra. La schiena appoggiata al lato del letto, le ginocchia al petto e stretto fra le braccia quel suo enorme cuscino rosa. “I tuoi mi han detto che eri qui.” le dico quasi sussurrando mentre mi ci siedo accanto. È in quel momento che mi accorgo dei suoi occhi, ben più che semplicemente velati dalle lacrime. Sto per chiederle cos’è successo, anche se già ne sono stata messa al corrente, ma lei fulminea mi precede. “Perché le persone arrivano sempre a deluderti? Miriam era la mia amica migliore … E invece ha messo in giro tutte quelle voci.” per la prima volta da quando sono entrata punta i suoi occhi nei miei, giusto il tempo di pormi una domanda carica di malinconia. “Perché zia?! Perché la gente prova gusto a ferire?” Non ho scudi contro quegli occhi liquidi, tremendamente sinceri. Le avvolgo il braccio destro sulle spalle e me la stringo un po’. È restia al contatto prolungato, lo so, infatti dopo pochi istanti si scosta ed io rimango ad osservare il morbido movimento dei suoi capelli scuri. Anagraficamente sono lontana ormai vent’anni da questi drammi adolescenziali ma emotivamente non sono poi tanto diversa dalla quattordicenne in lacrime che mi siede al fianco.

“Ti racconto un aneddoto. Qualche anno fa, dieci per la precisione!” faccio una smorfia a sottolineare il mio disappunto nei confronti del tempo in avanzata e perlomeno le strappo un sorriso. “Ho frequentato un’Accademia d’Arte. Era un progetto che tenevo nel cassetto da molto tempo e finalmente mi decisi a tirarlo fuori da lì …”

“E questo cosa centra zia?” mi volto divertita nella sua direzione. “Centra! Perché, oltre ad essere stata per me un’esperienza al di sopra delle più floride aspettative, è stata anche l’ultima volta in cui mi sono lasciata fregare da una persona che credevo amica!” Torna a fissare la punta dei suoi piedi, pronta ad ascoltare.

“Ero nuova della classe ma non mi risultò difficile acclimatarmi anzi, conobbi subito una ragazza con la quale pareva avessi molto in comune. Andavamo davvero tanto d’accordo e dopo poche settimane sembravamo praticamente inseparabili. Clarissa. Così si chiamava …” mi scappa involontario un sorriso, non pensavo a quel nome da un sacco di tempo. Non pensavo a lei da un sacco di tempo! Sospiro, consapevole della porta che si spalancherà dentro ai miei ricordi appena inizierò a raccontare.

“Senza perderci in reminiscenze arrivo al punto: il prof di storia dell’arte ed io eravamo invischiati in una sorta di bizzarro conflitto. Aveva appena dieci anni più di me. Io, all’epoca, frequentavo spesso uomini più grandi e questo mi rendeva difficile vederlo come un vero professore. Per me era semplicemente un coetaneo dei ragazzi con i quali giravo. Non ricordo il motivo dell’astio reciproco ma compenso con la memoria dei continui nostri battibecchi, delle prese in giro e delle frecciatine che ci lanciavamo nei corridoi. Era una lite alla Tom & Jerry, nulla di serio. Però stavo davvero iniziando a non sopportarlo più: le sue ore preferivo spenderle davanti alle macchinette oppure in cortile a fumare …”

“Fumavi, zia?” Eh già, a lei non l’ho mai detto! Penso distrattamente. “Si, sono stata una fumatrice per diversi anni …” “E perché hai smesso?” soppeso la domanda e la possibile risposta. “… Vorrei dirti perché sono cresciuta, ma …” un’altra smorfia sul mio viso, questa volta non si tratta di disappunto ma di scarsa convinzione. Mi rasserena vedere che ancora riesco a farla ridere.

“Riprendiamo!” sussurro facendole l’occhiolino, ammaliata dalla naturale brillantezza dei suoi occhi neri. “Come stavo dicendo prima che mi interrompessi … Le sue lezioni cercavo di evitarle e quando mi capitava di parteciparvi non riuscivo a trattenermi dal rapportarmi con menefreghismo e sufficienza. Stessa cosa faceva lui, ogni volta che azzeccavo una risposta ad una sua domanda. La cosa strana è che, nonostante mi perdessi davvero tante spiegazioni, la sua materia non è mai stata un problema: apprendevo tutto con facilità, arrivando spesso ad ottenere voti parecchio alti! Comunque sia, verso la metà dell’anno ero ormai satura e pronta a scoppiare. Per quanto mi riguardava, due erano le possibili motivazioni: o davvero gli stavo antipatica -ed ero determinata a scoprirne la causa- oppure, e qui scusami il francesismo, mi si voleva fare!” Scoppio a ridere al ricordo di quanto fossi scema! “E cosa hai fatto?” “La più semplice delle cose: l’ho invitato a bere un drink! Dopo la cena di Natale organizzata dalla classe ho aspettato fuori dal ristorante con la scusa di fumare una sigaretta. Tutti stavano salutandosi sulla soglia e fingendo di voler fare altrettanto, mi avvicinai. Quei tortellini mi hanno seccato un po’ la gola, le andrebbe di farmi compagnia per un bicchiere di qualcosa di fresco? Il suo sguardo passò rapidamente dalla diffidenza, alla confusione per finire nella riflessione. Poi sorrise e capii che era fatta. Certo! Non si lascia bere da sola una signora!Signorina, prego!Mi permetto di contraddirti Nadia, la forma più corretta è Signora! A quanto pare è considerata politicamente corretta! Mi lasciai sfuggire un sospiro. Non eravamo ancora rimasti completamente soli e già faticavo a tollerarlo. Ci fermammo in un posto carino e, tra l’imbarazzo iniziale, ordinammo da bere. Devo ammettere che riuscì a sorprendermi: fuori dall’Accademia risultava perfino simpatico. Le sue battute erano argute e la sua risata sincera. Aveva da condividere parecchi racconti interessanti e gli piaceva ascoltare … Non me lo sarei mai aspettato ma si dimostrò anche un vero gentiluomo quando, vedendomi infastidita dall’aria condizionata del locale, mi posò la sua giacca sulle spalle. Ora, che rimanga fra me e te, ma non ero davvero abituata a certe attenzioni.”

Lei mi guarda, rapita e sconcertata al tempo stesso. “Perché no?” “Beh, considerando certi individui che frequentavo … Ma credo sia il caso di approfondire la questione quando sarai un pochino più grande! Per il momento accontentati di questo racconto, di cui certo non vado particolarmente fiera!” Ridiamo. Mentre getta a terra l’enorme cuscino rosa ruotando verso di me, strisciandosi a terra con le gambe ancora incrociate, le osservo gli occhi. Ora sono quasi asciutti, anche se il pianto le ha arrossato la sclera. Appena smette di agitarsi nella ricerca di una posizione comoda, riprendo.

“Per farla breve … Quella sera andò bene, molto bene! Della serie che … Trascorsi nemmeno dieci giorni, uscimmo un’altra volta. E dopo di allora, uscimmo ancora e ancora e ancora. Certo, era imbarazzante vederlo in classe … Nessuno doveva sapere nulla, quindi eravamo obbligati a recitare le nostre parti. Io la studentessa un po’ svogliata e lui il professore un pochino troppo stronzo! La faccenda si fece seria quando una sera mi invitò a cena a casa sua. Si era messo ai fornelli per cucinarmi non ricordo quale tipo di risotto. Forse alle fragole … No, credo fosse allo spumante! Non lo so, ma era certamente delizioso tanto che ne divorai due porzioni mentre lui mi osservava, divertito dal mio poco femminile appetito. Ovviamente non fu il risotto a complicare tutto … Diciamo che la colpa fu più che altro del dessert. Particolarmente delizioso pure quello …”

Altra cosa a cui non pensavo da parecchio tempo. Strano com’è: entri in una camera per consolare tua nipote e ti ritrovi a scomodare un passato a cui non davi voce da troppo. Quando torno a guardarla vedo sulla punta della sua lingua un’ovvia domanda, così la precedo. “Non ci pensare nemmeno! Prima di svelarti quale fosse il dolce prelibato che mangiai quella sera, dovranno passare ancora un po’ di anni!” Confusa, vedo nei suoi occhi qualcosa che non mi piace e un brivido di imbarazzo mi risale la schiena. “Ci sei andata a letto?!” Esattamente quello che temevo!

“Hey! Ero single, ci trovavamo attraenti e poi era già qualche tempo che ci stavamo frequentando! Ma … Sto pure a giustificarmi con te, è ridicolo! Taci e ascolta la storia della tua quasi vecchia zia!! La mattina seguente risultò chiaro ad entrambi che non potevamo più fingere che le nostre uscite fossero puramente amichevoli, c’era di più! E ormai avevamo oltrepassato quel limite che avremmo dovuto mantenere intatto. Erano i primi di giugno quando mi chiese di incontrarlo al solito bar. Vedendolo da lontano già avevo capito: era lì per chiudere e, nonostante mi rattristasse, ero consapevole che fosse la decisione migliore. C’era troppo a rischio. La sua carriera, i miei esami … La nostra credibilità. Non mi sbagliai. Il tempo di accendere e finire un paio di sigarette e ci dividemmo. Era l’ultima settimana di corso quindi non mi preoccupai troppo di prendere parte alle sue ore. Alle altre lezioni partecipavo con entusiasmo invece, soprattutto a quella di pittura. La mia preferita! Io e Clarissa eravamo le più rumorose durante quei sessanta minuti ma anche le più dotate, quindi ci veniva perdonata qualche chiacchiera in più. Un giorno l’insegnate ci chiese di disegnare ciò che per noi rappresentava la libertà. Io dipinsi un leone maestoso e fiero. Ritto sulle quattro zampe nel mezzo di un poco profondo torrente, con la criniera sconvolta dal vento …”

“Quello in casa tua!” appoggio una mano sulla sua testa. “Smettila di spoilerarti i finali! Certo che voi ragazzini non spiccate per la pazienza, eh?!” sorrido.

“Era certamente il mio quadro migliore! Purtroppo il prof pensava altrettanto e decise di inglobarlo tra gli averi della scuola, per poterlo mostrare al pubblico alle occasioni buone! Ne ero orgogliosa ovvio, ma il dispiacere di rinunciarvi mordeva più dell’orgoglio. Non potendo farci nulla, accettai. Accadde proprio dopo una lezione di pittura che Clarissa mi si avvicinò. Da un po’ di giorni la vedevo strana, distaccata, nervosa. Pensavo avesse qualche problema per la testa. Invece sputò una frase che non mi sarei mai aspettata. Ti chiedo scusa Nadia. La guardai inebetita perché non trovavo il motivo delle sue scuse. Finse della compassione nello sguardo e nel leggero sospiro che buttò fuori dalle labbra. Forse non lo sai ancora. Esco con il professor Tozzi, Michele per me! Una fitta mi attraversò lo stomaco. Ah, davvero? Wow, che notizia. Ne sono felice. Era un po’ che gli sbavavi dietro! Simulai dell’allegria poco convincente. Per questo non ti vedevo più? Eri troppo impegnata con il tuo nuovo amore? Non devi chiedermi scusa per questo, Clari! Ti ho chiesto scusa perché lui ha preferito me a te! In quel momento non solo lo stomaco mi bruciò terribilmente, ma il cuore si contrasse. Che frase meschina da dire ad un’amica e poi … Come faceva a sapere di me e Michele?! Cosa stai dicendo? Nadia, credevi davvero che non mi fossi accorta di nulla? Non sono mica così scema. Sono mesi che lo so! Ne ho avuto la conferma quando ho guardato nel tuo telefono … Ero fuori di me. Come ti sei permessa? Smettila Nadia! Non frega a nessuno dei tuoi piagnistei! Sai invece cos’è importante? Che lo volevo io e me lo sono preso! Quella frase fece ancora più male. Fece davvero tanto male! Rischiava la carriera frequentando te. Io gliel’ho solamente fatto notare, calcando un po’ la mano forse … Ma l’importante è che abbia preso la decisione giusta! Inizialmente non ne era molto convinto di darti quell’appuntamento al bar ma, sai com’è, agli uomini basta dare la giusta dose di incentivi! Certo, anch’io sono una sua allieva ma non me ne vado in giro con gli occhi a cuoricino come facevi tu. Sono una persona più discreta. Un po’ me ne vergogno ma devo ammettere che faticai a trattenere le lacrime. Mi sentivo talmente tradita da non riuscire quasi a parlare. Riuscii a sussurrare solamente una frase, piena di rabbia e di delusione. No Clarissa, tu sei una persona schifosa! Me ne andai. Era l’ultimo giorno di scuola quindi, fortunatamente, non dovetti tornarci fino al giorno degli esami. Giorno in cui rividi lui … Lui con lei, per la precisione. Nel parcheggio, ben nascosti dal tronco nodoso di un ulivo, mentre ridevano e si baciavano. Fu come uno schiaffo.”

“Perché lo ha fatto, se davvero era tua amica?” “Vedi Delia, delle volte le persone sono convinte di volere qualcosa, o qualcuno, e non si rendono conto che la loro non è vera passione. Ma solo un effimero desiderio di prevaricare qualcun altro, di dimostrare a se stessi di valere più dell’altra persona. Un po’ com’è successo a te con Miriam: non sopportava l’idea che tra le due fossi la più ricercata e, spinta dalla brama di attenzioni, ha voluto sputtanarti … E di nuovo, scusami il francesismo! Comunque sia, dati gli esami, quei due non li ho più visti. Anzi, ho proprio chiuso ogni tipo di contatto soprattutto con Clarissa, di cui non sopportavo più nemmeno il nome. Ma la perdita maggiore rimaneva sempre quel prezioso dipinto che avevo dovuto cedere alla scuola. Poi accadde una cosa. Mi recai all’Accademia per ritirare dei documenti e svuotare il mio armadietto, ancora pieno delle mie cianfrusaglie. Quando lo aprii ci trovai un regalo …”

Delia spalanca gli occhi in un’espressione di pura meraviglia. Sembra essersi già dimenticata di quel dolore che l’ha chiusa in questa stanza. “Il dipinto!”

Annuisco. “Non c’era nessun biglietto o messaggio, solamente lo scontrino di un bar. Grazie a quello ho capito da chi arrivasse quel dono inatteso. Era lo scontrino della bevuta natalizia con un arrogante e interessante professore di storia dell’arte … Dentro di me ho sorriso con tutto il cuore per quel gesto e, anche se non gliel’ho mai detto, spero sinceramente che sia consapevole dell’importanza che ha avuto per me.”

Mi passo una mano sulla fronte. Sapevo che sarebbe stata dura far riemergere questa storiella, ma non pensavo che mi sarei sentita anche frastornata. Come se la mente si fosse di colpo alleggerita.

“E quindi? Com’è finita?” Per un secondo ho scordato quella quattordicenne impaziente al mio fianco ed ora torno a guardarla quasi disorientata. “Ah … Com’è finita … E’ finita che non li ho più sentiti e, da quello che mi è stato riferito, i due sono stati una coppietta per qualche tempo per poi andare ognuno per la sua! Io già uscivo con un altro …” “Lo zio Umberto?” mi scappa una fragorosa risata nel paragonare quell’amore dimenticato all’uomo che ora chiamo marito. “No, figurati! Anche se lo zio già lo conoscevo … Solo che era davvero impacciato e timido: ha impiegato anni e parecchie mie relazioni, prima di farsi avanti! Non puoi capire che fatica è stata aspettare che si decidesse!!”

La porta si apre ed entra Massimo, mio fratello. Piano piano sguscia dentro con la testa riccia, sperando di non disturbare i nostri discorsi fra donne. “Volevo solo farvi presente che la cena è pronta! Nadia, è arrivato Umbe’.” Così com’è entrato, sparisce.

Tornate sole rimaniamo un po’ in silenzio. Io ripenso a quel pazzo periodo dell’Accademia mentre Delia, probabilmente, riflette sul da farsi.

“Quindi, cosa devo fare zia? La perdono Miriam? O la lascio perdere e, come hai fatto tu, vado avanti per la mia strada?”

Le fisso gli occhi scuri ormai completamente asciutti e scorgo nelle sue pupille il peso che questo dilemma le procura. Certo, per noi adulti i drammi adolescenziali sembrano davvero piccoli ed effimeri ma, come ho detto, emotivamente non mi sento troppo differente dalla ragazzina che ho di fronte.

“Beh, questo mica posso saperlo! Spetta a te decidere, ormai sei abbastanza grande. Io però posso dirti una cosa: andrà tutto bene, sempre! E sai perché? Perché, nonostante tutto, ci sarà sempre qualcuno disposto anche a rischiare pur di riportarti il tuo dipinto più prezioso.”

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Da web

Mary

Un soffio di vento

Su una lontana vetta bianca stava, sola, una bandiera che sventolava. I suoi tre colori brillavano ai freddi raggi di un sole invernale, mentre nel silenzio il vento cantava un’antica canzone.

Le strofe ricordavano il rumore di pesanti scarponi in marcia ormai dimenticati ed echi di risate e comandi. La neve, immobile, nascondeva in lontananza le pietre crepate dal tempo, su cui nomi sconosciuti aspettavano la primavera per mostrarsi nelle loro vecchie incisioni.

Ai piedi dell’alto palo di questa bandiera, un piccolo fiore. Un bucaneve.

Dai bianchi petali delicati, così simili alle nevi, da confondersi nel manto candido.

Corona di una purezza tale da passare inosservata: la testolina del giovane fiore.

E proprio lì, una goccia di rugiada ormai ghiacciata. Che, a guardarla con attenzione, pareva più una lacrima che una semplice perla di condensa.

La bandiera, solitaria, non cessava il ballo con la brezza. Piena d’orgoglio com’era, di trovarsi lì. Così in alto.

Fiera di quei colori Paterni, simboleggianti il Paese dal quale proveniva, memori degli uomini che fin lì – in alto – la trasportarono cantando all’unisono e marciando al medesimo passo, con pesanti zaini scuri ad incurvare le spalle possenti.

Non si era accorta del piccolo bucaneve. Non riusciva a scorgere i suoi petali. Troppo basso lui, troppo simile alla neve. Troppo in alto lei, a parlar col vento sussurrante.

E Bucaneve, con la sua lacrima ghiacciata, ascoltava invece le parole del terreno. Non cantava la terra – al contrario del vento – ma rimuginava. Le sue parole tracciavano il disegno di cammini moderni ma indolenziti, di menti geniali ma assopite, di discorsi privati dell’intelligenza e di cuori pulsanti che più non cercano la curiosità, ma si accomodano su spessi materassi di disincanto.

E mentre Bandiera – immersa nei ricordi – volteggiava felice ed ignara; Bucaneve ascoltava gramo la sonnolenza del Mondo.

Poi, accadde un qualcosa. Semplice e potente, come è di regola nella natura. Il sole brillò per un secondo più intensamente, riflettendo i suoi raggi sulla lacrima ghiacciata del piccolo fiore.

Allora, catturata dallo scintillio ai suoi piedi, Bandiera abbassò il suo sguardo.

La meraviglia si accese dentro di lei quando capì che non era da sola, lì in alto.

Bucaneve, a sua volta, alzò piano i petali e si innamorò della vivacità di quei tre colori danzanti.

Finalmente si distrasse dalla tristezza che gli inondava il gambo verdognolo e si accorse del cielo sgombro di nuvole e del vento che soffiava e cantava.

Una lacrima e un sorriso. Un bucaneve ed una bandiera.

La distanza tra loro era troppo elevata per permettergli di parlare, così rimasero a guardarsi. In silenzio.

Bandiera capì di aver trovato qualcuno a cui mostrare i suoi splendidi colori. Bucaneve prestò orecchio alle strofe cantate dal vento e imparò le storie di pesanti scarponi e di uomini con un Tricolore dentro lo zaino.

Fu così che il sorriso di Bandiera non rimase solo per lei, ma si trasformò in un regalo per il piccolo fiorellino candido.

Fu così, che la goccia salata di rugiada ormai ghiacciata, si sciolse lentamente dal petalo di Bucaneve e ricadde alle sue radici, donandogli un sorso di acqua fresca.

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[ Image by internet ]
 

Mary

L’addio

E lei non voleva saltare nel vulcano.

Ma lo avrebbe fatto, per salvarlo.

Lui, con gli occhi ricolmi di lacrime la fissava senza fiato sul ciglio gorgogliante, urlando il suo nome al di sopra dei ruggiti delle fiamme.

Solo un muto istante fra i loro occhi. La malinconia del tutto. La mancanza del futuro.

Per troppo non avevano guardato dentro quella fornace che, silenziosa, viveva strisciando sotto i loro piedi. Troppo impauriti avevano sostituito le bugie con i silenzi.

Quel fuoco bruciava, intanto. Mangiava ogni cosa intorno a loro, riducendo in cenere  la panchina del loro primo bacio, le lenzuola calde del loro amore, le mani giunte in promessa e quelle istantanee dei loro sorrisi ingialliti.

Mentre avanzavano coraggiosamente fingendo che la fiamma non esistesse, tutto era scomparso.

Uno sguardo.

Lei lo avrebbe fatto. Avrebbe liberato entrambi da quella desolazione. Avrebbe rimediato agli errori commessi in due.

Lei aveva il coraggio.

Si voltò. I capelli vorticosi contro la sua pelle, il calore a bruciarle la fronte. Le mani tese invisibilmente verso lui, che mai avrebbe lasciato.

Non era pronta. Ma l’orgoglio nel cuore suggerisce altro, spesso. Un passo avanti e quel fuoco non l’avrebbe più perseguitato. Lui, che era il suo Amore, nella mente e nel cuore.

Quella voce roca e disperata urlava il suo nome da sopra la fossa infuocata. L’avrebbe fermata. Quanto l’avrebbe voluto. Allungare un braccio e impedirle di espiare le colpe di entrambi. Stringerla come sempre e ripetere ancora una volta che tutto sarebbe andato nel verso giusto.

Ma non poteva. La determinazione negli occhi di lei era stata a farlo innamorare, e mai avrebbe tradito quel tacito rispetto.

Non rimaneva che guardarla affondare nel fiume di lava, col rimorso perenne dei suoi occhi al momento dell’addio.

Ma niente gli impediva di urlarle contro ciò che il suo cuore supplicava di dire. Un ultimo Ti Amo. Un Perdonami annacquato fra le lacrime. Un Ricordami Per Sempre sussurrato dal fondo del petto. Un Io Ti Ricorderò disperato e tremante. Quell’Amore Mio ripetuto per l’ultima volta.

Da lei nemmeno una parola. Non poteva parlare o avrebbe buttato tutto. Quanto desiderava tornare indietro e perdersi in quelle braccia, così sicure, avvolgenti e perenni.

Non avrebbe potuto dire più nulla.

Lo fissava silenziosa. Gli occhi, come cascate, zampillavano i muti dolori che la logoravano.

Sarebbe stato più facile non buttarsi dentro al vulcano. Non fermare la fiamma. Imparare a vivere nella cenere.

Ma non l’avrebbe fatto. Lui non lo meritava.

E accompagnata dai gorgoglii ingordi del fuoco e dalle urla disperate di quello che era il suo Amore, voltò lo sguardo verso il suo futuro e si lasciò cadere dentro le fiamme scure.

Uno strazio insopportabile si levò dai polmoni di lui.

Non c’era più. Quei suoi occhi e la sua bocca. I capelli a volo nel vento e le mani sottili.

Il suo cuore. Profondo, immenso, sconfinato.

Era saltata nel vulcano.

Tutto ormai era cambiato.

Sarebbero stati liberi. In un tempo lontano. Con il cuore in frantumi.

 

Mary

 

Autunno (parte 2)

Lo scintillio della piccola fascia d’oro bianco allacciata al suo anulare impediva a Flavia di guardare altrove.

Sapeva che era sposato. Spesso le era capitato di intravedere sua moglie baciarlo sulle labbra nel frenetico saluto mattutino appena dentro l’uscio della stazione, ma quella fede scintillante la paralizzava, trasformando le sue fantasie in un qualcosa di assurdamente reale. Si chiese se Sergio fosse felice con quella donna, se lei gli desse l’amore che si erano promessi davanti al prete o se fosse un rapporto come i tanti disillusi, annullato dalle intemperie del tempo … E si rispose che non sarebbe stata in nessun caso  una valida scusa per diventare l’intrusa fra due persone che si erano amate e scelte nel mondo.

In quel momento vide la mano di lui abbozzare un movimento e notò che le stava parlando, guardandola nervosamente negli occhi castani.  

 “Scusa?” disse lei, imbarazzata all’idea di esser stata vista nel fissare pentita la fede troneggiante al suo dito .

“Com’è il tuo cornetto?!”. Ripeté lui, con un timido sorriso tirato in volto e Flavia si accorse dell’esistenza di una lieve sfumatura di disagio nella voce di Sergio. La sicurezza e la fermezza di poco fa, quando seduti alla panchina della stazione avevano fumato assieme la loro prima sigaretta e per la prima volta avevano cercato le mani l’uno dell’altra nella voglia di assaporare il calore di un corpo per troppo desiderato, parevano ora incrinate nel tono di voce meno caldo e più distante, come un vetro troppo sottile adagiato su punte diamantine.

Non rispose. Accese l’ennesima sigaretta della mattinata, che andava scaldandosi, e annuì distrattamente, lasciando che la sua attenzione venisse rapita dal motivo geometrico della tovaglietta sdraiata sotto il piattino da caffè. Desiderava non provare quella bruciante vergogna davanti all’immagine di lei che distruggeva una famiglia seducendo quell’uomo dagli occhi grigi. Sarebbe diventata “l’altra”.

«Mi raccomando Flavia, stai con chi vuoi … Ma lascia in pace gli uomini sposati!». Questo glielo ripeteva sempre sua madre. Aveva cominciato a dirglielo non appena entrata nell’età dei primi fidanzatini e non aveva ancora smesso di ricordarglielo.

“Già …” Sussurrò espirando una boccata di fumo denso che andò a diramarsi sopra le loro teste, poi alzò lo sguardo e si concentrò su ogni dettaglio del viso di Sergio. Le sopracciglia perfettamente non curate, di un paio di tonalità più chiare dei capelli scuri, in cui già si intravedevano le sfumature brizzolate del tempo in cammino. Quell’unica ruga marcata in mezzo alla fronte che conferiva autorevolezza al suo sguardo, determinato ma stranamente cordiale per un uomo dall’aria grezza come lui. Per osservare poi le sue labbra sottili dal colore troppo tenue per una carnagione abituata all’abbronzatura del duro lavoro all’aperto.

Fu su quel dettaglio che Flavia si fermò, fissando e ammirando quella bocca che desiderava accarezzare dai suoi lontani sedici anni. E ora lui era lì, seduto a un tavolo qualunque di un baretto mai notato, e le sorrideva e i suoi piedi la sfioravano ad ogni movimento su quelle sedie troppo vicine e le sue mani le passavano l’accendino e il suo profumo le arrivava dentro fino in fondo ai polmoni … Ed era tutto ciò che sognava ormai da dieci anni!!

La ragione l’avrebbe fermata, ma il cuore pulsava troppo perché Flavia potesse sentire altro che non il suo canto. Lentamente alzò lo sguardo e impiantò i suoi occhi in quelli di Sergio. Un sorriso dolce le uscì dalle labbra.

 “E’ buonissimo! Ti va di assaggiarlo?”

Subito si allungò sul tavolo, ritrovandosi a pochi centimetri da lui, che ormai stava cedendo a quel desiderio con la stessa rassegnazione della ragazza che ora, puntellata con i gomiti sul freddo metallo, gli appoggiava sulla pelle leggermente umida delle labbra l’impasto ancora tiepido della brioche.  

Un morso e un unico sorriso passò da lei a lui.

L’imbarazzo e i sensi di colpa vennero cacciati da quel bar come nuvoloni in tempesta da un vento frizzante. Seguirono molte sigarette, poche chiacchiere, troppi sguardi e calde risate. Nessuno dei due, ora, avrebbe avuto la paura di provare l’amore che avevano aspettato, rubando un giorno al tempo del Mondo.

Quando si alzarono dal tavolo venne spontaneo intrecciare le dita. Caldi rampicanti a suggellare un incontro. Si avviarono nella strada desolata delle mattinate autunnali, fermandosi di tanto in tanto davanti alle vetrine illuminate ancora confusi e incapaci di comprendere quell’assurdo strappo nella linea della vita, e senza rendersene conto arrivarono davanti al portone dipinto di blu della casa di Flavia, salendo i quattro piccoli gradini di pietra che portavano alla maniglia.

“Sergio … “ sussurrò lei. Il cuore come un motore surriscaldato, le mani tremanti e gelate.

“Flavia … “. Le accarezzò i capelli e avvicinò il volto a quello di lei. Le labbra finalmente si sfiorarono e la parvenza di un bacio fra loro si stampò nell’istante del tempo.

Gli occhi di Sergio si fecero arrossati e dalle guance di lei scesero piccole gocce lucenti nel sole, poi lui si voltò, abbracciandola con lo sguardo un’ultima volta. Scomparve alla sua vista in pochi minuti. Della sua bocca solo il respiro aveva assaggiato, di quell’uomo che ora poteva dire di aver amato davvero.

Con le lacrime incessanti che le bagnavano la giacca leggera, girò le spalle a quel giorno rubato al Mondo ed entrò in casa. Sola.


La voce metallica degli annunci attirò la sua attenzione e un lieve bruciore all’indice della mano destra la fece lievemente sobbalzare. Flavia si portò il dito alle labbra e notò una bruciatura superficiale della sigaretta, che ora giaceva a terra interamente fatta di cenere. Aveva dimenticato di averla accesa e ora il contatto col fuoco le intorpidiva la pelle. Confusa alzò lo sguardo verso l’enorme orologio della stazione.

Era una mattina uggiosa di autunno, sulla lingua danzava ancora forte l’aroma del caffè bollente alla nocciola e le lancette segnavano le sette e dieci. Guardò la panchina di Sergio, vide che era vuota. Già se n’era andato. Il freddo sul volto la riportò alla realtà, in cui quello strappo non era mai esistito. Il sogno sognato da sveglia di una ragazza come tante altre, seduta su una fredda panchina in attesa del treno.

Immediatamente ripensò a quel bacio non dato, a quel cornetto tiepido, alle loro dita incastrate. Poi la voce richiamò la fermata. Era il suo treno. Sette e dieci in punto. E ogni mattina alle sei e cinquanta arrivava lui, in perfetto orario.

Lui. Con i suoi bellissimi occhi grigi e i capelli brizzolati.

Flavia lo guardava da così tanto tempo … Era da così tanto che ne era innamorata … E lo avrebbe guardato e amato per sempre!

 

Mary

 

Autunno (parte 1)

Le foglie della vecchia quercia rannicchiata nell’ombroso angolo del giardino cominciavano a cadere, assecondando il ritmo delle sferzate fredde del nuovo vento.

Era ormai giunto l’autunno che, congedato il sole infuocato di Agosto, portava con se il ricordo dei doveri rimasti a sonnecchiare durante i mesi estivi.

Erano le sei e trenta di una mattina uggiosa e Flavia, sorseggiando il suo solito caffè bollente alla nocciola, osservava il cielo dalla finestra appannata della cucina, avversa all’idea di dover abbandonare il rassicurante calore del caminetto acceso per tuffarsi di faccia fra quelle violente raffiche gelide.

Persa e immersa nei propri pensieri, trovò il valido motivo per uscire in strada e recarsi alla stazione.

 …

Il treno, come ogni mattina, non sarebbe partito prima delle sette e dieci. Si andò a sedere su una panchina di ferro battuto che rendeva più penetrante la frescura autunnale e fece scattare il suo zippo preferito, pronta per gustarsi il sapore della prima sigaretta di giornata. Nel frattempo i pendolari come lei, iniziarono a riversarsi nei pressi delle rotaie, ansiosi di giungere a meta nel più breve tempo possibile.

Flavia li osservava in silenzio. Nelle orecchie le rimbombava la calda voce del suo cantante preferito. Guardò l’orologio colpita allo stomaco dallo sfarfallio dell’agitazione. Fissò l’entrata e, in perfetto orario, dalla folla si fece strada lui. Il suo valido motivo per uscire di casa.

Senza rendersene conto si mise a sussurrare la canzone che filtrava dal suo iPod, non distogliendo lo sguardo. 

“Chi ti difenderà
dal buio della notte,
da questa vita che non dà
quel che promette.
T’innamorerai lo so
certo non di me …”

Ogni giorno, alle sei e cinquanta in punto, lui varcava la soglia della stazione e andava a sedersi in disparte accendendosi una sigaretta, proprio come lei.

Lo guardava da così tanto. Anni interi passati con le farfalle a danzarle nel cuore, impazzite quanto lei, nella speranza di incontrarlo, di trovare il coraggio per parlargli o semplicemente per sorridergli e quell’amore silenzioso nel frattempo si espandeva senza criterio all’interno del suo petto, facendole desiderare di vedere quella bocca mai assaggiata dipingersi a sorriso per lei, di godere fino in fondo ai polmoni del respiro di quell’uomo, troppo lontano e distratto dalla vita per accorgersi di una ragazza come tante altre, seduta su una fredda panchina in attesa del treno.

Un desiderio che iniziava a bruciare e quel bruciare la annientava perché non era il fastidio di un fuoco freddo bensì l’ustione di un incendio ruggente.

Andava ancora a scuola quando lo vide per la prima volta: l’aspetto rude, le spalle forti, le mani grandi, la barba quasi sempre incolta e la camicia di flanella buttata su jeans scuri e sporchi di lavoro, ma due occhi grigi estremamente profondi, come addestrati nel celare la saggezza aldilà delle apparenze.

Era più grande di lei, molto più grande, ma per una strana sensazione che non riusciva a spiegarsi, era certa che esistesse un legame silenzioso fra loro. Lo capiva ad ogni sguardo affidato al vento, nell’oblio della confusione di arrivi e partenze, in cui lui sembrava fissarla dritto nelle pupille lucenti.

Si guardò le dita lievemente macchiate di nicotina, con l’ansia che la nauseava, e decise che non avrebbe trascorso un’altra mattinata a guardarlo in quel modo. Da lontano.

Si alzò e prese a camminare verso di lui. Il cuore nella gola, stritolato dall’eccessiva deglutizione. Lo vide destarsi dai propri pensieri e guardarla incuriosito. Avrebbe voluto fermarsi ma le gambe non le comandava più e, in pochi minuti, la portarono di fronte alla panchina dov’era seduto lui.

“Sergio.” Si presentò, lasciandola sbigottita e confusa, con gli occhi fissi a terra nel tentativo di uccidere il rossore sulle guance. Poi, dalla tasca, estrasse un pacchetto.

“Vuoi?”. Flavia prese coraggio e lo guardò dritto negli occhi. Ricolma di una gioia inespressa afferrò delicatamente la sigaretta e si sedette accanto a lui. Le spalle tese, pronte nel captare il più piccolo contatto con il suo corpo.

Il treno arrivò e portò via con sé i pendolari frettolosi, ma Sergio e Flavia rimasero immobili nel loro innocente idillio, col sorriso di chi già ha guadagnato il premio di un’estenuante maratona.

Noncuranti della realtà.

Felicemente ignari di un mondo al di fuori delle le loro dita, ormai serrate nella voglia di non vedersi più andar via.

 

Mary

 

Rocker End

Un’unica lampada sul tavolo di mogano dalla luce giallastra, triste, illumina la stanza intrisa di vittorie passate: i dischi d’oro e di platino appesi alla parete scintillano nella penombra, il vecchio microfono riposto con cura in quella vetrina costosa, la fedele chitarra segnata da quegli anni di follia.

La mia Fender Stratocaster: blu elettrico con le venature in oro …

Ricorda una notte di Capodanno.

Fermando lo sguardo sul suo metallo gelido mi butto a peso morto sulla poltrona di pelle lasciando trapelare tutta la stanchezza dei miei 45 anni.

I capelli, ancora lunghi come allora, mi scivolano sugli occhi e sulle spalle.

Fisso quelle sei corde, immobili ormai da tanto tempo.

Era la mia bambina, la mia amante, il mio primo amore …

La mia migliore amica.

Abbasso lo sguardo verso il goccio di Jack Daniel’s che mi balla nel bicchiere.

Lo è sempre stata, da quel pomeriggio londinese dell’81, quando la scovai in mezzo ad altre cento accatastate in quel negozietto impolverato.

“E’ una Stratocaster del ’54.” Mio zio. Rocker dannato come me.

Innocente responsabile della mia passione.

Accarezzo la mia barba. Quel giorno, la sua, doveva avere esattamente questa lunghezza.

I ricordi, in marcia solenne, debuttano nel tetro palcoscenico della notte.

Ad uno ad uno fanno la loro entrata e si presentano.

Il primo, Passione.

Porta addosso il 1954, anno della mia chitarra. Saltella sul legno marcio come un bimbo felice. Com’ero io, quando la strinsi con le mie mani ancora troppo piccole, per la prima volta.

Sorride, fa un inchino.

Aspetta nella penombra l’arrivo dei suoi compagni.

Un’altra sagoma. Avanza.

Lo riconosco, è Ambizione.

Il suo numero è il 1982. Un anno ad imparare per poi urlare al mondo la mia musica.

I dettagli di tutti quei parchi e di quelle strade rovinate riecheggiano nella mia memoria.

Sembra passato un attimo, sembra trascorso un abisso.

Ancora nessuno mi sentiva.

Madame Solitudine era il mio pubblico.

Lo saluto di rimando e si allontana.

Un altro.

E il mio cuore non so se reggerà.

Lui, Adrenalina. Il nostro gruppo.

1985. 17 anni e sputare rock su quei microfoni mai cambiati.

La svolta di quella sera. Quel locale. E le groupies prendevano il posto di Solitudine.

Un ombra, dalle mille forme e colori, avanza.

Come si chiamava? Non lo ricordo.

Già, è Allucinazione.

Non ha un anno preciso, lui. Dietro gli scivolano quasi due decenni di date.

Porta in viso e sul corpo i segni di una vita buttata.

Lo accompagna una nebbia di polvere sottile, un bicchiere pieno e l’idea di una donna provocante.

Abbasso gli occhi.

Sul mio avambraccio destro lo vedo.

Gli anni di quel ricordo sparsi in bianche cicatrici a punta di spillo.

Lui fa lo stesso. Mi sorride.

Dal suo braccio ne esce ancora, di sangue.

La goccia macchia il legno. E la macchia non va più via.

Ultimo.

Eccolo, Fallimento.

2003. 2003 volte che sono stato ucciso. 2003 volte che ho perso tutto. 2003 amici che non ho visto più.

E’ troppo.

E’ brutale.

I volti cannibali di quel palco marcio si cibano di me.

Lacerano. Bruciano. Infilzano. Annegano.

Il Jack Daniel’s non s’è mosso dal bicchiere.

Gli occhi stanchi si guardano intorno.

Vecchie memorie. Vecchie vittorie.

E questo chi è? Non lo conosco.

“Eccomi, sono Rimpianto”.

 

Mary