Autunno (rivisitato)

Le foglie della vecchia quercia rannicchiata nell’ombroso angolo del giardino cominciavano a cadere, assecondando il ritmo delle sferzate fredde del nuovo vento. Era ormai giunto l’autunno che, congedato il sole infuocato di Agosto, portava con se il ricordo dei doveri rimasti a sonnecchiare durante i mesi estivi.
L’orologio segnava le sei e trenta minuti di una mattina uggiosa e Flavia, sorseggiando il suo solito caffè bollente alla nocciola, osservava il cielo dalla finestra appannata della cucina, avversa all’idea di tuffarsi nelle gelide raffiche, finché non le saltò in mente il volto di quello che lei ormai chiamava tra se e se il valido motivo. Prese la giacca e uscì in strada, diretta alla stazione.
Il treno, come sempre, non sarebbe partito prima delle sette e quindici. Aveva ancora tempo, quindi andò a sedersi su una di quelle panchine in ferro battuto che rendono la frescura autunnale più penetrante, e posò fra le labbra la prima sigaretta della giornata accendendola con uno scatto dello zippo portafortuna. Nel frattempo i pendolari come lei iniziarono a riversarsi nei pressi delle rotaie, ansiosi di giungere a meta, nervosi e brontoloni. Flavia li osservava in silenzio. Nelle orecchie la calda voce del suo cantante preferito.
Guardò l’orologio e la posizione delle lancette le procurò un rapido brivido alla spina dorsale. Si voltò verso l’enorme porta a vetri dell’entrata: eccolo. In perfetto orario.
Senza rendersene conto iniziò a sussurrare le parole della canzone che le filtrava nelle orecchie, come un pappagallo infreddolito, mentre i suoi occhi non si staccavano dall’uomo che avanzava tra la folla.

“Chi ti difenderà
dal buio della notte,
da questa vita che non dà
quel che promette.
T’innamorerai lo so
certo non di me …”

Ogni giorno, alle sei e cinquanta in punto, lui varcava la soglia della stazione e andava a sedersi in disparte accendendosi una sigaretta, proprio come lei.
Lo aveva notato anni prima, ai tempi ancora delle scuole, e non era stata in grado di levarselo dalla mente. Qualcosa in quel suo aspetto rude, nelle spalle forti, nella barba spesso e volentieri lasciata incolta, nella camicia di flanella gettata sopra dei jeans sporchi di lavoro, la seduceva. O forse la colpa stava nella tonalità grigia dei suoi occhi, profonda e impenetrabile, a renderglielo impossibile da cancellare.
Per anni interi lui su una banchina e lei su un’altra. Due binari paralleli, senza nessuna apparente connessione. Esattamente come le loro età: vent’anni a dividerli.
Flavia non poteva che continuare a fissarlo, così lontano e distratto dalla vita per accorgersi di una ragazza come tante altre che, seduta sul ferro gelido di una panchina, aspetta in silenzio il suo treno.
Il fumo della sigaretta immobile fra l’indice e il medio iniziò annoiato a danzarle sotto gli occhi. Qualcosa di incomprensibile galleggiava fra loro, lo capiva ad ogni sguardo portato dal vento, fra il caotico oblio di arrivi e partenze, in cui lui sembrava fissarla dritto nelle pupille lucenti.
No. pensò lei. Oggi no, non me lo guardo più da lontano. Oggi voglio conoscerlo!

Prese ad osservarsi le dita appena segnate di nicotina, fece un respiro pieno e rumoroso e si alzò, con la nausea che le ballava nello stomaco. Attraversò branchi inquieti di ragazzini con lo zaino in spalla, disinvolti direttori di una qualche banca stretti nelle loro perfette giacche e cravatte, un paio di turisti disorientati e poi trovò lui. Vestito alla stessa maniera, seduto alla stessa panchina con le labbra serrate sulla stessa marca di sigarette. Non la vide, intento a grattar via una macchia di calce dai jeans.
Il cuore di Flavia le si fermò in gola, schiacciato dalla deglutizione frenetica.
Ora o mai più. Sussurrò a se stessa e gli si fece vicino, facendolo appena sobbalzare per la sorpresa.
La vide stringere nella mano sinistra lo zippo decorato ma sprovvista di una sigaretta con cui usarlo. Sorrise. Vuoi? le chiese porgendole il pacchetto. Lei rimase lì, immobile con un’espressione tutt’altro che intelligente, a fissare i bastoncini di tabacco come fossero diamanti di Tiffany.
Volevi una sigaretta? Prendila pure. e si alzò davanti a lei.
Flavia allungò timida la mano e ne afferrò una, respirando lentamente per riprendere il controllo di se. Si, grazie. Alzò lo sguardo e, per la prima volta, riuscì a specchiarsi nei suoi occhi grigi.
Erano anni che anche lui la guardava, entrambi lo sapevano.
Una strana elettricità sgorgava dai loro corpi finalmente vicini: frizzante e densa, come il cuore di certe caramelle ripiene di soda acidula.
Le loro bocche espirarono in sincronia perfetta nuvole calde di fumo. Sergio, piacere. disse lui, sfuggendone gli occhi e fissandosi sul dettaglio del piercing che le decorava il sopracciglio.
Una stretta di mano. Primo contatto, impacciato ma già caldo nel suo fuggente desiderio.
Tornarono a sedersi sulle panchine di ferro battuto. Per la prima volta non più su linee destinate a non incrociarsi mai, ma l’uno di fianco all’altra. Talmente vicini da respirarne l’odore di questo incontro: agrumato come le note al limone della pelle di lei e dal sentore di caffè come l’alito di lui.

Il treno arrivò e portò via con sé i pendolari frettolosi, tranne Sergio e Flavia che rimasero immobili nel loro innocente idillio, dal sorriso nascosto fra lo scintillio dei loro occhi persi senza meta nella folla, con il cuore in subbuglio e le mani sudate.

L’accecante brillare della fascia d’oro bianco impediva a Flavia di distogliere lo sguardo dall’anulare di Sergio. Sapeva bene che si trattava di un uomo sposato, ma quell’anello era per lei una manetta che le stritolava la bocca dello stomaco nella prigionia del senso di colpa.
Di quando in quando l’aveva scorta, in stazione, quella moglie sempre di corsa che con un casto bacio salutava suo marito prima di scomparire oltre l’uscio.
Sono l’altra. pensò nervosamente lei, percependo d’improvviso lo sbaglio colossale che rappresentava quello stare lì, seduto l’uno davanti all’altra, al tavolino di un bar qualsiasi.
«Mi raccomando Flavia, stai con chi vuoi … Ma lascia in pace gli uomini sposati!» questo glielo ripeteva sempre sua madre, fin dall’età dei primi corteggiamenti e ancora glielo ricordava, senza preavviso e senza motivo.
Già … sussurrò lei espirando una boccata di fumo denso che si diramò sopra le loro teste; poi alzò lo sguardo e si convinse di poter fissare nella mente ogni dettaglio del viso di lui, per poi andarsene prima di peccare. Iniziò ad esaminare i capelli scuri in cui sfumature brizzolate iniziavano a lasciare il simbolo del tempo in marcia, arruffati quel tanto che basta per immaginarlo appena sveglio; le sopracciglia perfettamente non curate, di un paio di tonalità più chiare dei capelli; l’unica ruga marcata in mezzo alla fronte che conferiva autorevolezza allo sguardo; per lasciar scivolare poi gli occhi sulle sue labbra sottili e di un rosa decisamente tenue se confrontato alla carnagione conferitagli dal duro lavoro all’aperto.
Si chiese se lui fosse davvero felice con quella donna dai lunghi capelli ricci e, immediatamente, si rispose che non aveva importanza, che nessuna motivazione poteva giustificare la sua intromissione fra due persone che si erano giurate amore. Spinse indietro la sedia e fece per alzarsi quando si accorse del labiale in movimento di Sergio.
Scusa? gli chiese fissandolo sul mento. Com’è il tuo cornetto? La sua voce risuonava impacciata, così Flavia alzò il suo sguardo color dei noccioli e lo posò nel suo, grigio come il cielo che promette pioggia.
E lì lo sentì: ora o mai più. Quella era la loro occasione rubata al tempo. L’unica giornata in cui quel loro tanto sognato noi poteva sopravvivere.

Non rispose subito, si limitò ad accendere l’ennesima sigaretta della mattinata che andava scaldandosi, lasciando che l’attenzione le venisse rapita dal motivo geometrico della tovaglia sdraiata sotto il piattino da caffè.
Lo aveva desiderato così tanto ed ora Sergio era lì, seduto di fronte a lei con stampato un sorriso di cui gli donava l’esclusiva … Avrebbero sbagliato, ma ne sarebbe valsa la pena.
Con il cuore quasi calmo, lentamente alzò il volto e lo guardò. Un sorriso dolce le uscì sulle labbra.
E’ buonissimo! Ti va di assaggiarlo? chiese sporgendosi sopra il tavolino per raggiungere la bocca di lui, rassegnato quanto lei al desiderio bruciante di un contatto. Da labbra a labbra il pezzo d’impasto tiepido passò dall’una all’altro senza tuttavia sfociare in un bacio, nel silenzio dei loro corpi tesi. Si sorrisero finalmente complici ed ogni senso di colpa si dissipò nell’aria frizzante dell’autunno.
Seguirono innumerevoli sigarette, poche chiacchiere, decisamente troppi sguardi e delle risate calde e piene. Entrambi avevano smesso di temere, di frenarsi, di tirarsi indietro.
Un giorno rubato alla realtà, rubato al mondo.
Un anomalo incrocio di due rette parallele. Un assurdo strappo nella linea della vita. gli sussurrò Flavia, mentre lui la stringeva a se.

Quando si alzarono dal tavolo fu spontaneo prendersi per mano avviandosi per la strada ricca di vetrine e odori di bevande e piatti caldi. Camminarono senza rendersene conto per parecchi minuti, trovandosi sorpresi davanti al portone dipinto di blu dell’abitazione di lei. Salirono i quattro gradini in pietra e si fissarono, stringendosi delicatamente come davanti ad un precipizio.
Sergio … sussurrò lei. Aveva il cuore surriscaldato come un motore e le mani stranamente gelate.
Flavia … le fece eco con la sua voce roca, accarezzandole i capelli e avvicinandosi alle sue labbra piene e invitanti. Finalmente concessero alle loro bocche di accarezzarsi nella parvenza d’un bacio che in quel momento si stampò come un’istantanea nel tempo che li circondava.
Gli occhi di lui presero a scintillare di un triste rossore mentre dalle guance di lei cadevano ruscelli salati. L’abbracciò con lo sguardo un’ultima volta, si voltò e scomparve alla sua vista in pochi minuti. A Flavia rimase solamente un dettaglio di Sergio: il sapore del suo respiro, che gli danzava ancora sulle labbra.
Con le lacrime ostinate che le macchiavano la giacca leggera, girò le spalle a quel giorno galeotto ed entrò in casa. Sola.

La voce metallica degli annunci la fece sobbalzare, complice anche la sigaretta che, arrivata ormai al filtro, le bruciava l’indice con insistenza. La lanciò a terra e prese a succhiarsi la pelle scottata, nel tentativo di portarle sollievo. Aveva completamente scordato di averne accesa un’altra e, un po’ confusa, alzò lo sguardo verso l’enorme orologio dalle lancette spesse e nere.

Era una mattina uggiosa di autunno, sulla lingua danzava ancora forte l’aroma del caffè bollente alla nocciola ed erano esattamente le sette e dieci minuti. Guardò la panchina di Sergio e vide che era già vuota. Il freddo in faccia la riportò alla realtà, dissolvendo anche gli ultimi vapori di quel sogno ad occhi aperti che l’aveva rapita pochi minuti prima, quando lo aveva visto varcare la soglia tra la folla e non era stata in grado di opporsi all’immaginare cosa sarebbe potuto essere se …
Ma si trattava solamente di una sciocca fantasia di una ragazza come tante altre, seduta su una fredda panchina in attesa di un treno, e questo Flavia lo sapeva bene.
Le tornò alla mente quel bacio non dato e quel cornetto tiepido di cui riusciva a sentirne l’odore. Questa mia potente immaginazione mi è amica e nemica allo stesso tempo. si disse, con un mezzo sorriso appeso alle labbra.
La voce metallica la richiamò ai comandi: il suo treno era in procinto di partire e lei doveva salire e tornare alla vita che aveva scelto.
Sette e quindici in punto. E ogni mattina alle sei e cinquanta arrivava lui, in perfetto orario.
Lui. Dagli occhi grigi come il cielo londinese e i capelli brizzolati dal tempo.
Flavia lo guardava da così tanto tempo. Da così tanto tempo lo amava, silenziosa.
Così, per tanto altro tempo ancora, lo avrebbe guardato e amato da lontano.

Mary